This volume collects three essays dealing with different aspects of the same theme: the endurance and pervasiveness of the Myth of Troy in Western culture and civilization, from Antiquity to the Early Modern Age. The research moves from my interest in the reception of two now obscure Late Latin texts: the “War journals” of Dictys the Cretan and Dares the Phrygian, purportedly direct witnesses of the War of Troy. The texts were originally written in Greek within the cultural context of the Second Sophistic and they were no more than examples of that Homer-centric production which prevailed at the time. However, Dictys and Dares managed to take medieval and early modern Europe by storm, accrediting themselves as the only reliable source on the topic of the Trojan War. We could easily say that the reception of the Trojan Myth in Europe equals the reception of Dictys and Dares: so the obvious question arises. How could it be that the West, despite the studia humanitatis, placed so much trust and passion in them? The language of their transmission certainly mattered, but the fact is: they were translated into Latin because they were trusted as reliable witnesses, and not the other way around. After all, in the centuries of the disappearance of Greek from Europe, there was a score of revered Latin texts that could be mined on the subject of Troy: from the Aeneid to the Heroids; from the Metamorphoses to the Achilleid. But compared to these texts Dictys and Dares could claim a double advantage. First of all, the Aeneid and the other texts mentioned did not offer much to a Western medieval reader eager to know the whole story of Troy. All Latin literature dealing with the myth referred in fact its audience to the preliminary knowledge of Homer. Without Homer, Virgil, Ovid and the rest could not but appear partial and dissatisfying on the subject of Troy, whereas Dictys and Dares gave a complete account of the events. Secondly, Dictys and Dares had the advantage of truth: of history over fiction. They appeared to be the only trustworthy historical sources of seminal events; events that had been disfigured by scores of poets, starting with Homer, by way of blatant fictions. The first essay in the book thus tries to answer this question and gives a detailed outline of the phenomenon. The second essay is devoted to Dante, to verify whether the old claim that he did not know the wealth of Trojan legends derived from Dictys and Dares can still stand. The third essay, finally, deals with another inescapable question: how could it be possible that the return of Homer to the West did not affect the reception and success of Dictys and Dares. Indeed: all data point in the opposite direction and Homer appears as the defeated party by far. The essay investigates the terms of the phenomenon and the conclusions are rather surprising, given our acceptance of the canon that has in Homer the father of poetry.

n questo volume raccolgo tre saggi, nati attorno a un comune tema di ricerca: la pervasività del mito troiano nella cultura occidentale, dall’antichità all’età moderna. Sono stati pensati e scritti in un medesimo arco di tempo e ciascuno dei tre si completa e chiarisce in rapporto agli altri due. Il mio interesse muoveva dalla curiosità per due testi latini della tarda antichità che si spacciavano per resoconti di prima mano dal fronte di Troia: i diari di guerra di Ditti il Cretese e Darete il Frigio, sedicenti testimoni dell’intero conflitto. Erano chiaramente due impudenti falsari e pensavo che, se mai ne avessi trovate, le loro tracce nella cultura occidentale sarebbero state commisurate al loro scarso valore. La realtà era tutt’altra e, man mano che procedevo nella raccolta dei dati, i due assumevano i contorni improbabili di veri giganti: autentici, esaurienti, sobri, ma soprattutto in latino (una finzione nella finzione spiegava che i diari erano stati a un certo punto tradotti in latino), Ditti e Darete avevano secondo ogni evidenza e per diversi secoli dominato l’Europa intera, avida di conoscere – e all’occorrenza di inventare – le proprie radici classiche. In un certo senso, la fortuna del mito di Troia coincide in Europa con la fortuna di questi testi. Essi furono capaci di superare quasi indenni la soglia tra Medioevo e Umanesimo e di adattarsi a esigenze culturali e letterarie le più varie: dai cantari popolari alla poesia di corte, dalle compilazioni storiche medievali alla letteratura encomiastica rinascimentale. Ma perché l’Occidente, nonostante gli studia humanitatis, aveva riversato la sua inesausta passione per il mito troiano sulla versione di Ditti e Darete, sostituendo di fatto questi testi a Omero? In fondo, anche nell’età della scomparsa del greco non erano poche né di poco conto le opere latine disponibili al lettore di argomento direttamente o indirettamente troiano: dall’Eneide alle Eroidi ovidiane, dalle Metamorfosi alle tragedie senecane, dal Satyricon di Petronio all’Achilleide di Stazio. Ebbene, rispetto a questi testi, Ditti e Darete potevano reclamare un doppio vantaggio. In primo luogo, l’Eneide e gli altri che ho citato non erano per loro stessa natura testi dai quali un lettore medievale ansioso di conoscere le gesta degli Achei e dei Troiani potesse ricavare gran cosa, una volta perdutasi l’orditura complessiva dell’Iliade: tanto le composizioni autonome (Eroidi, Achilleide), quanto i segmenti di opere più ampie (Eneide, Metamorfosi) condividevano, rispetto alla matrice omerica, un medesimo carattere, che potremmo definire integrativo. Erano testi pensati per essere letti e recepiti in rapporto ai poemi omerici, destinati a un pubblico colto che, sorretto dalla conoscenza diretta dell’Iliade (e dell’Odissea), ne avrebbe saputo apprezzare il carattere ora di devoto omaggio, ora di parodia, ora di orgogliosa sfida a Omero. E quando il greco scomparve dall’orizzonte culturale dell’Occidente, proprio questo carattere di preziosa superfetazione rispetto al testo-madre rese i testi latini sulla guerra di Troia irrimediabilmente mutili: anche per questo l’impegnativo ruolo di successor Homeri toccò proprio a Ditti e Darete, modesti manufatti tardoantichi; essi, tra tutti, narrano il mito di Troia “dall’inizio alla fine”. In secondo luogo, Ditti e Darete si presentavano come testi veridici, documentari: gli unici in grado di restituire ai lettori la veritas di un evento in primo luogo storico, che i poeti, a cominciare da Omero, avevano stravolto con le loro finzioni. Conoscere l’orizzonte di attesa dei lettori da un lato e l’intenzione dei testi dall’altro tuttavia ancora non dava la risposta all’interrogativo più ovvio e macroscopico: come fosse stato possibile che Ditti e Darete riuscissero nel loro inganno attraverso le cesure tra tarda antichità, medioevo, età moderna. È a questa domanda che vuole rispondere il primo saggio: ho cercato di rintracciare la peculiarità che potesse spiegare la resistenza di questi testi e la loro proteiforme vitalità, della quale ho elencato gli snodi principali, tra fiction e storiografia. Nella ricognizione della sopravvivenza dei due testi spiccava tuttavia una vistosa lacuna: Dante. Una verifica approfondita sul testo della Commedia smentisce nel secondo saggio la diffusa ipotesi critica dell’ignoranza di Dante rispetto a questi testi e offre una spiegazione della loro ridottissima presenza all’interno della Commedia. Il terzo nodo critico ineludibile era infine il rapporto di Ditti e Darete con Omero nel momento in cui l’Iliade fece la sua ricomparsa in Occidente. Per quanto ci sia stato un recente fiorire di studi sulla fortuna di Omero nell’Umanesimo e Rinascimento, nessuno di questi ha mai preso in esame la parallela diffusione di altri testi antichi sulla Guerra di Troia. Il terzo e ultimo saggio della raccolta valuta quindi se e come l’ininterrotta fortuna di Ditti e Darete dopo la ricomparsa dell’Iliade abbia ostacolato una più ampia diffusione del poema omerico.

Omero sconfitto. Ricerche sulla guerra di Troia dall'antichità al Rinascimento / Prosperi, Valentina. - (2013), pp. I-108.

Omero sconfitto. Ricerche sulla guerra di Troia dall'antichità al Rinascimento

PROSPERI, Valentina
2013-01-01

Abstract

This volume collects three essays dealing with different aspects of the same theme: the endurance and pervasiveness of the Myth of Troy in Western culture and civilization, from Antiquity to the Early Modern Age. The research moves from my interest in the reception of two now obscure Late Latin texts: the “War journals” of Dictys the Cretan and Dares the Phrygian, purportedly direct witnesses of the War of Troy. The texts were originally written in Greek within the cultural context of the Second Sophistic and they were no more than examples of that Homer-centric production which prevailed at the time. However, Dictys and Dares managed to take medieval and early modern Europe by storm, accrediting themselves as the only reliable source on the topic of the Trojan War. We could easily say that the reception of the Trojan Myth in Europe equals the reception of Dictys and Dares: so the obvious question arises. How could it be that the West, despite the studia humanitatis, placed so much trust and passion in them? The language of their transmission certainly mattered, but the fact is: they were translated into Latin because they were trusted as reliable witnesses, and not the other way around. After all, in the centuries of the disappearance of Greek from Europe, there was a score of revered Latin texts that could be mined on the subject of Troy: from the Aeneid to the Heroids; from the Metamorphoses to the Achilleid. But compared to these texts Dictys and Dares could claim a double advantage. First of all, the Aeneid and the other texts mentioned did not offer much to a Western medieval reader eager to know the whole story of Troy. All Latin literature dealing with the myth referred in fact its audience to the preliminary knowledge of Homer. Without Homer, Virgil, Ovid and the rest could not but appear partial and dissatisfying on the subject of Troy, whereas Dictys and Dares gave a complete account of the events. Secondly, Dictys and Dares had the advantage of truth: of history over fiction. They appeared to be the only trustworthy historical sources of seminal events; events that had been disfigured by scores of poets, starting with Homer, by way of blatant fictions. The first essay in the book thus tries to answer this question and gives a detailed outline of the phenomenon. The second essay is devoted to Dante, to verify whether the old claim that he did not know the wealth of Trojan legends derived from Dictys and Dares can still stand. The third essay, finally, deals with another inescapable question: how could it be possible that the return of Homer to the West did not affect the reception and success of Dictys and Dares. Indeed: all data point in the opposite direction and Homer appears as the defeated party by far. The essay investigates the terms of the phenomenon and the conclusions are rather surprising, given our acceptance of the canon that has in Homer the father of poetry.
2013
9788863725889
n questo volume raccolgo tre saggi, nati attorno a un comune tema di ricerca: la pervasività del mito troiano nella cultura occidentale, dall’antichità all’età moderna. Sono stati pensati e scritti in un medesimo arco di tempo e ciascuno dei tre si completa e chiarisce in rapporto agli altri due. Il mio interesse muoveva dalla curiosità per due testi latini della tarda antichità che si spacciavano per resoconti di prima mano dal fronte di Troia: i diari di guerra di Ditti il Cretese e Darete il Frigio, sedicenti testimoni dell’intero conflitto. Erano chiaramente due impudenti falsari e pensavo che, se mai ne avessi trovate, le loro tracce nella cultura occidentale sarebbero state commisurate al loro scarso valore. La realtà era tutt’altra e, man mano che procedevo nella raccolta dei dati, i due assumevano i contorni improbabili di veri giganti: autentici, esaurienti, sobri, ma soprattutto in latino (una finzione nella finzione spiegava che i diari erano stati a un certo punto tradotti in latino), Ditti e Darete avevano secondo ogni evidenza e per diversi secoli dominato l’Europa intera, avida di conoscere – e all’occorrenza di inventare – le proprie radici classiche. In un certo senso, la fortuna del mito di Troia coincide in Europa con la fortuna di questi testi. Essi furono capaci di superare quasi indenni la soglia tra Medioevo e Umanesimo e di adattarsi a esigenze culturali e letterarie le più varie: dai cantari popolari alla poesia di corte, dalle compilazioni storiche medievali alla letteratura encomiastica rinascimentale. Ma perché l’Occidente, nonostante gli studia humanitatis, aveva riversato la sua inesausta passione per il mito troiano sulla versione di Ditti e Darete, sostituendo di fatto questi testi a Omero? In fondo, anche nell’età della scomparsa del greco non erano poche né di poco conto le opere latine disponibili al lettore di argomento direttamente o indirettamente troiano: dall’Eneide alle Eroidi ovidiane, dalle Metamorfosi alle tragedie senecane, dal Satyricon di Petronio all’Achilleide di Stazio. Ebbene, rispetto a questi testi, Ditti e Darete potevano reclamare un doppio vantaggio. In primo luogo, l’Eneide e gli altri che ho citato non erano per loro stessa natura testi dai quali un lettore medievale ansioso di conoscere le gesta degli Achei e dei Troiani potesse ricavare gran cosa, una volta perdutasi l’orditura complessiva dell’Iliade: tanto le composizioni autonome (Eroidi, Achilleide), quanto i segmenti di opere più ampie (Eneide, Metamorfosi) condividevano, rispetto alla matrice omerica, un medesimo carattere, che potremmo definire integrativo. Erano testi pensati per essere letti e recepiti in rapporto ai poemi omerici, destinati a un pubblico colto che, sorretto dalla conoscenza diretta dell’Iliade (e dell’Odissea), ne avrebbe saputo apprezzare il carattere ora di devoto omaggio, ora di parodia, ora di orgogliosa sfida a Omero. E quando il greco scomparve dall’orizzonte culturale dell’Occidente, proprio questo carattere di preziosa superfetazione rispetto al testo-madre rese i testi latini sulla guerra di Troia irrimediabilmente mutili: anche per questo l’impegnativo ruolo di successor Homeri toccò proprio a Ditti e Darete, modesti manufatti tardoantichi; essi, tra tutti, narrano il mito di Troia “dall’inizio alla fine”. In secondo luogo, Ditti e Darete si presentavano come testi veridici, documentari: gli unici in grado di restituire ai lettori la veritas di un evento in primo luogo storico, che i poeti, a cominciare da Omero, avevano stravolto con le loro finzioni. Conoscere l’orizzonte di attesa dei lettori da un lato e l’intenzione dei testi dall’altro tuttavia ancora non dava la risposta all’interrogativo più ovvio e macroscopico: come fosse stato possibile che Ditti e Darete riuscissero nel loro inganno attraverso le cesure tra tarda antichità, medioevo, età moderna. È a questa domanda che vuole rispondere il primo saggio: ho cercato di rintracciare la peculiarità che potesse spiegare la resistenza di questi testi e la loro proteiforme vitalità, della quale ho elencato gli snodi principali, tra fiction e storiografia. Nella ricognizione della sopravvivenza dei due testi spiccava tuttavia una vistosa lacuna: Dante. Una verifica approfondita sul testo della Commedia smentisce nel secondo saggio la diffusa ipotesi critica dell’ignoranza di Dante rispetto a questi testi e offre una spiegazione della loro ridottissima presenza all’interno della Commedia. Il terzo nodo critico ineludibile era infine il rapporto di Ditti e Darete con Omero nel momento in cui l’Iliade fece la sua ricomparsa in Occidente. Per quanto ci sia stato un recente fiorire di studi sulla fortuna di Omero nell’Umanesimo e Rinascimento, nessuno di questi ha mai preso in esame la parallela diffusione di altri testi antichi sulla Guerra di Troia. Il terzo e ultimo saggio della raccolta valuta quindi se e come l’ininterrotta fortuna di Ditti e Darete dopo la ricomparsa dell’Iliade abbia ostacolato una più ampia diffusione del poema omerico.
Omero sconfitto. Ricerche sulla guerra di Troia dall'antichità al Rinascimento / Prosperi, Valentina. - (2013), pp. I-108.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11388/56397
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