I risultati conseguiti di volta in volta nei capitoli di questa ricerca contribuiscono a fornire una visione rinnovata e complessiva della regolamentazione giuridica elaborata dagli edili curuli in materia di tutela del compratore nella compravendita di schiavi, in particolare sotto il profilo della eventuale presenza di vizi nella cosa oggetto del contratto. Filo conduttore è stato il testo edittale, alla luce del quale sono stati esaminati i successivi apporti della scienza giuridica romana: fin dall’emanazione delle prime rubriche dell’editto de mancipiis emundis vendundis, infatti, i giuristi manifestarono il loro interesse nei confronti della nuova disciplina edilizia interpretandone i principi, elaborando definitiones, emettendo responsa. Dalle testimonianze dei giuristi e degli autori antichi, e dai dati contenuti nei documenti epigrafici, emergono risultati che vale la pena evidenziare brevemente, seguendo le tematiche considerate nella ricerca, nel corso della quale gli apporti della dottrina moderna sono stati discussi analiticamente nei singoli luoghi. Lo studio, preliminare, dei mezzi di tutela previsti dal ius civile per garantire i compratori dagli atti di frode dei venditori di animali e di schiavi (atti di frode derivanti dalla mancata dichiarazione di difetti e malattie, o dalla promessa di qualità inesistenti), ha consentito di mostrare la portata innovatrice dell’intervento edilizio in materia di compravendita di schiavi: il ius civile, infatti, non prevedeva una responsabilità generale ed oggettiva del venditor per la mancata dichiarazione dei vizi occulti dei servi oggetto di vendita. Tale tipo di responsabilità venne introdotta dagli edili curuli mediante l’emanazione dell’editto de mancipiis emundis vendundis e la concessione dell’actio redibitoria, che consentiva di ottenere la risoluzione del contratto di compravendita. L’intervento edilizio, grazie alle testimonianza di Plauto, va collocato sicuramente prima del 168 a.C., data generalmente accettata dalla dottrina. I risultati raggiunti attraverso l’esame delle fonti giuridiche trovano un’importante conferma in alcune tavolette di Ercolano e Pozzuoli, documenti di grande interesse ed utilità per una completa visione dell’applicazione pratica ed effettiva delle disposizioni dell’editto degli edili curuli alle vendite dei mancipia, alle relative clausole di garanzia e alle stipulazioni imposte dagli edili in merito sia alla garanzia per l’evizione, sia alla garanzia per i vizi occulti. L’analisi comparativa dei dati contenuti nelle tavolette con alcuni brani delle Notti Attiche di Aulo Gellio e del De officiis di Cicerone, inoltre, ha consentito di dimostrare che inizialmente l’editto edilizio trovava il suo ambito di applicazione esclusivamente nei contesti mercantili, ma che già in epoca ciceroniana si era verificata l’estensione delle regole edilizie a tutte le compravendite di schiavi, anche a quelle concluse al di fuori dei mercati. Gli edili imponevano al venditore una dichiarazione precisa: quid morbi vitiive cuique sit. Da qui un vivace dibattito fra i giuristi, teso da un lato a definire le nozioni di morbus e di vitium (quantum ‘morbus’ a ‘vitio’ differret), dall’altro a identificare i vizi rilevanti ai fini della redibizione. L’esame dei testi ha condotto all’individuazione di diversi filoni interpretativi, dai c.d. (da Aulo Gellio) veteres iurisperiti a Trebazio Testa e Labeone, e poi da Labeone a Ulpiano, ed ha consentito di ricostruire i percorsi attraverso i quali la giurisprudenza in età severiana arrivò a considerare morbus e vitium come due termini che esprimevano lo stesso concetto, usati ambedue nell’editto per non lasciare dubbi e margini ai tentativi di frode. In quanto poi alla definizione del “difetto” da considerarsi rilevante - e siamo nell’ambito di vizi che riguardano il corpo dello schiavo - le fonti conservano una ricca casistica ed il relativo dibattito. Questo, puntualmente ricostruito, fu articolato e complesso, coinvolgendo, insieme a considerazioni di tipo utilitaristico (con riferimento all’emersione del criterio della funzionalità), anche concezioni filosofiche (vedi l’utilizzo della nozione di natura come parametro di normalità) e mediche (basti pensare al morbus sonticus o al caso dello spado). La stessa casistica è stata esaminata analiticamente allo scopo di far emergere gli orientamenti giurisprudenziali prevalsi di volta in volta nella qualificazione di determinati difetti come rilevanti o non rilevanti ai fini edilizi, e di ricercare le vie attraverso le quali si formò un orientamento prevalente, che trovò espressione in una magistrale doppia sintesi ulpianea: il morbus vitiumve, per essere rilevante, doveva impedire l’usus ministeriumque hominis. Nel terzo capitolo, seguendo l’ordine dell’editto de mancipiis emundis vendundis, sono stati affrontati i problemi inerenti a dichiarazioni del venditore prescritte in modo specifico dall’editto degli edili curuli. Si tratta di dichiarazioni relative a vizi che non riguardavano il corpo della schiavo, bensì aspetti della sua indole o del suo passato, e che sono previste non con una indicazione di genere, come per il morbus vitiumve, ma, come si è detto, in modo specifico (ad esempio l’avere la schiavo la tendenza a fuggire o a vagabondare, oppure l’essere novicius o veterator, e così via). I vizi relativi all’indole dello schiavo vengono ricompresi da Ulpiano nella categoria generale dei vitia animi, in contrapposizione ai vitia corporis: ancora una volta ci troviamo di fronte ad una operazione di sintesi che il giurista severiano compie a conclusione di un lungo percorso interpretativo compiuto dalla giurisprudenza romana nelle età precedenti. Tale percorso è stato ricostruito analiticamente per illustrare attraverso quali costruzioni concettuali e quali soluzioni sistematiche e terminologiche si giunse in età severiana ad affermare che l’actio redhibitoria poteva essere concessa solo in presenza di vitia corporis (ovviamente quelli che, come si è detto, impedivano l’usus ministeriumque hominis) e non in presenza di vitia animi, a meno che non si trattasse di un vitium animi specificamente e tassativamente indicato nel testo edittale. Si realizzava così, evidentemente, un’inversione di prospettiva rispetto all’ottica dell’editto. Frutto di interpretazione estensiva è la categoria dei vitia animi derivati da vitia corporis, elaborata da Viviano, e ripresa da Ulpiano, che a sua volta completa l’iter concettuale arrivando a parlare di corporis et animi mixtum vitium. In presenza di un vizio di questo genere poteva essere concessa l’azione redibitoria, qualora il vizio escludesse o limitasse oltre un certo limite la capacità lavorativa dello schiavo. Nella categoria rientrano diverse forme di alienazione mentale, fra le quali particolare attenzione è stata dedicata all’ipotesi del furiosus, situazione ritenuta dalla maggior parte della dottrina vitium animi, ma che si è visto essere concepita originariamente come vitium corporis, e poi come vitium corporis derivato da vitium animi, e per questo rilevante ai fini edilizi. Il quadro si completa con l’esame delle singole dichiarazioni previste in modo specifico dall’editto, attraverso l’analisi delle fonti e la discussione della dottrina, rispetto alla quale anche in questo contesto sono emersi elementi di novità, in particolare in tema di fugitivus errove e per la qualificazione dello schiavo come novicius o come veterator.
“Aiunt aediles…”. Dichiarazioni del venditore e vizi della cosa venduta nell’editto de mancipiis emundis vendundis / Ortu, Rosanna. - 19:(2008), pp. VIII-324.
“Aiunt aediles…”. Dichiarazioni del venditore e vizi della cosa venduta nell’editto de mancipiis emundis vendundis
ORTU, Rosanna
2008-01-01
Abstract
I risultati conseguiti di volta in volta nei capitoli di questa ricerca contribuiscono a fornire una visione rinnovata e complessiva della regolamentazione giuridica elaborata dagli edili curuli in materia di tutela del compratore nella compravendita di schiavi, in particolare sotto il profilo della eventuale presenza di vizi nella cosa oggetto del contratto. Filo conduttore è stato il testo edittale, alla luce del quale sono stati esaminati i successivi apporti della scienza giuridica romana: fin dall’emanazione delle prime rubriche dell’editto de mancipiis emundis vendundis, infatti, i giuristi manifestarono il loro interesse nei confronti della nuova disciplina edilizia interpretandone i principi, elaborando definitiones, emettendo responsa. Dalle testimonianze dei giuristi e degli autori antichi, e dai dati contenuti nei documenti epigrafici, emergono risultati che vale la pena evidenziare brevemente, seguendo le tematiche considerate nella ricerca, nel corso della quale gli apporti della dottrina moderna sono stati discussi analiticamente nei singoli luoghi. Lo studio, preliminare, dei mezzi di tutela previsti dal ius civile per garantire i compratori dagli atti di frode dei venditori di animali e di schiavi (atti di frode derivanti dalla mancata dichiarazione di difetti e malattie, o dalla promessa di qualità inesistenti), ha consentito di mostrare la portata innovatrice dell’intervento edilizio in materia di compravendita di schiavi: il ius civile, infatti, non prevedeva una responsabilità generale ed oggettiva del venditor per la mancata dichiarazione dei vizi occulti dei servi oggetto di vendita. Tale tipo di responsabilità venne introdotta dagli edili curuli mediante l’emanazione dell’editto de mancipiis emundis vendundis e la concessione dell’actio redibitoria, che consentiva di ottenere la risoluzione del contratto di compravendita. L’intervento edilizio, grazie alle testimonianza di Plauto, va collocato sicuramente prima del 168 a.C., data generalmente accettata dalla dottrina. I risultati raggiunti attraverso l’esame delle fonti giuridiche trovano un’importante conferma in alcune tavolette di Ercolano e Pozzuoli, documenti di grande interesse ed utilità per una completa visione dell’applicazione pratica ed effettiva delle disposizioni dell’editto degli edili curuli alle vendite dei mancipia, alle relative clausole di garanzia e alle stipulazioni imposte dagli edili in merito sia alla garanzia per l’evizione, sia alla garanzia per i vizi occulti. L’analisi comparativa dei dati contenuti nelle tavolette con alcuni brani delle Notti Attiche di Aulo Gellio e del De officiis di Cicerone, inoltre, ha consentito di dimostrare che inizialmente l’editto edilizio trovava il suo ambito di applicazione esclusivamente nei contesti mercantili, ma che già in epoca ciceroniana si era verificata l’estensione delle regole edilizie a tutte le compravendite di schiavi, anche a quelle concluse al di fuori dei mercati. Gli edili imponevano al venditore una dichiarazione precisa: quid morbi vitiive cuique sit. Da qui un vivace dibattito fra i giuristi, teso da un lato a definire le nozioni di morbus e di vitium (quantum ‘morbus’ a ‘vitio’ differret), dall’altro a identificare i vizi rilevanti ai fini della redibizione. L’esame dei testi ha condotto all’individuazione di diversi filoni interpretativi, dai c.d. (da Aulo Gellio) veteres iurisperiti a Trebazio Testa e Labeone, e poi da Labeone a Ulpiano, ed ha consentito di ricostruire i percorsi attraverso i quali la giurisprudenza in età severiana arrivò a considerare morbus e vitium come due termini che esprimevano lo stesso concetto, usati ambedue nell’editto per non lasciare dubbi e margini ai tentativi di frode. In quanto poi alla definizione del “difetto” da considerarsi rilevante - e siamo nell’ambito di vizi che riguardano il corpo dello schiavo - le fonti conservano una ricca casistica ed il relativo dibattito. Questo, puntualmente ricostruito, fu articolato e complesso, coinvolgendo, insieme a considerazioni di tipo utilitaristico (con riferimento all’emersione del criterio della funzionalità), anche concezioni filosofiche (vedi l’utilizzo della nozione di natura come parametro di normalità) e mediche (basti pensare al morbus sonticus o al caso dello spado). La stessa casistica è stata esaminata analiticamente allo scopo di far emergere gli orientamenti giurisprudenziali prevalsi di volta in volta nella qualificazione di determinati difetti come rilevanti o non rilevanti ai fini edilizi, e di ricercare le vie attraverso le quali si formò un orientamento prevalente, che trovò espressione in una magistrale doppia sintesi ulpianea: il morbus vitiumve, per essere rilevante, doveva impedire l’usus ministeriumque hominis. Nel terzo capitolo, seguendo l’ordine dell’editto de mancipiis emundis vendundis, sono stati affrontati i problemi inerenti a dichiarazioni del venditore prescritte in modo specifico dall’editto degli edili curuli. Si tratta di dichiarazioni relative a vizi che non riguardavano il corpo della schiavo, bensì aspetti della sua indole o del suo passato, e che sono previste non con una indicazione di genere, come per il morbus vitiumve, ma, come si è detto, in modo specifico (ad esempio l’avere la schiavo la tendenza a fuggire o a vagabondare, oppure l’essere novicius o veterator, e così via). I vizi relativi all’indole dello schiavo vengono ricompresi da Ulpiano nella categoria generale dei vitia animi, in contrapposizione ai vitia corporis: ancora una volta ci troviamo di fronte ad una operazione di sintesi che il giurista severiano compie a conclusione di un lungo percorso interpretativo compiuto dalla giurisprudenza romana nelle età precedenti. Tale percorso è stato ricostruito analiticamente per illustrare attraverso quali costruzioni concettuali e quali soluzioni sistematiche e terminologiche si giunse in età severiana ad affermare che l’actio redhibitoria poteva essere concessa solo in presenza di vitia corporis (ovviamente quelli che, come si è detto, impedivano l’usus ministeriumque hominis) e non in presenza di vitia animi, a meno che non si trattasse di un vitium animi specificamente e tassativamente indicato nel testo edittale. Si realizzava così, evidentemente, un’inversione di prospettiva rispetto all’ottica dell’editto. Frutto di interpretazione estensiva è la categoria dei vitia animi derivati da vitia corporis, elaborata da Viviano, e ripresa da Ulpiano, che a sua volta completa l’iter concettuale arrivando a parlare di corporis et animi mixtum vitium. In presenza di un vizio di questo genere poteva essere concessa l’azione redibitoria, qualora il vizio escludesse o limitasse oltre un certo limite la capacità lavorativa dello schiavo. Nella categoria rientrano diverse forme di alienazione mentale, fra le quali particolare attenzione è stata dedicata all’ipotesi del furiosus, situazione ritenuta dalla maggior parte della dottrina vitium animi, ma che si è visto essere concepita originariamente come vitium corporis, e poi come vitium corporis derivato da vitium animi, e per questo rilevante ai fini edilizi. Il quadro si completa con l’esame delle singole dichiarazioni previste in modo specifico dall’editto, attraverso l’analisi delle fonti e la discussione della dottrina, rispetto alla quale anche in questo contesto sono emersi elementi di novità, in particolare in tema di fugitivus errove e per la qualificazione dello schiavo come novicius o come veterator.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.