Il libro intende mettere alla prova l’idea che per comprendere i mutamenti in atto nella città contemporanea occorra in primo luogo liberarsi da quella visione dello spazio e del tempo, che ha avuto origine con l’affermarsi del sistema di rappresentazione prospettica e che, a partire dal Rinascimento, ha potentemente condizionato il nostro modo di guardare e progettare la città e il territorio. Questa visione del mondo, espressione di un ordine di significati e di valori taciti, di di cui nonostante tutto siamo ancora profondamente invischiati ha fortemente modellato il nostro modo di guardare le cose da diventare talmente connaturata al nostro modo d’essere e di pensare, da essere esclusa da ogni forma di problematizzazione, di interrogazione e di riflessione. Lungi da ogni determinismo funzionale in questa visione si celano infatti in essa alcune idee fondanti, che affondano radici in uno spesso sostrato culturale che ha condizionato in maniera pesante il nostro stesso modo di guardare la città e il territorio e soprattutto di pensare la pianificazione e il progetto e che forse varrebbe la pena rimettere in discussione. Queste idee che hanno costruito dei potenti cannocchiali attraverso cui abbiamo filtrato la realtà, infatti, non solo non sono più sufficienti a farci cogliere il senso dei mutamenti in atto, ma rischiano di imbrigliare e di cristallizzare a tal punto la nostra visione da impedirci di capire che, al di là degli orizzonti conosciuti, forse qualcosa di nuovo sta nascendo. Qualcosa che agendo sottopelle della città contemporanea sta modificando radicalmente i nostri modi di esperire e di concettualizzare lo spazio e il tempo e che ci chiede di essere ascoltato ed interrogato. E’ proprio a partire da questi presupposti che il testo invita a liberarsi da questi orizzonti per allargare i confini della visione ed entrare in contatto con la realtà brulicante che ci appartiene al fine di ripensare le stesse modalità di guardare alla città e al territorio e di concepire il progetto. Il percorso Per “allargare i confini di questa visione” il lavoro, dopo aver individuato nell’invenzione del dispositivo prospettico, messo a punto a Firenze nel 400 da Brunelleschi, il momento chiave di questa importante svolta paradigmatica, mette in luce seguendo le orme già tracciate da studiosi importanti (Cassirer 1977; Panofsky, 2001, Feyerabend 2002; Florenskij 2003, Marin 2001, Merleau-Ponty 1989), quei presupposti infondati, ma fondanti che hanno reso possibile questa “forma simbolica”, di interpretazione e rappresentazione del mondo. Prima di vedere in quale mondo questi presupposti abbiano condizionato il nostro modo di guardare la città ed il territorio e di concepire il progetto, il lavoro, proprio per mostrare la non naturalità di questo sguardo distaccato e razionale che, come vedremo, ha ridotto lo spazio ad una sostanza estesa, impersonale e indifferenziata che viene prima dei corpi e ha trasformato la realtà vivente in un mondo pietrificato di oggetti, predestinati ai nostri artifici di captazione e di controllo, fa un salto indietro per rivolgersi al medioevo. Lo fa per scoprire e mettere in luce quali fossero le idee di spazio e di tempo e le conseguenti forme di organizzazione, di conoscenza, di descrizione e rappresentazione del territorio, esistenti prima che l’introduzione del sistema prospettico rieducasse forzatamente il nostro sguardo (Florenskij, 2003) e introducesse una maniera nuova di rapportarsi al mondo. Dopo aver descritto la molteplicità dei mondi locali che animavano lo spazio pulsante e vitale, accidentato, qualitativo, elastico e discontinuo del territorio medioevale – una realtà particolare interiormente organizzata, ovunque differenziata, come direbbe Florenskij che si opponeva allo spazio inerte e passivo a cui ci ha abituato la visione prospettica (Florenskij, 2003)– ed avere indagato i caratteri di questo spazio denso, stratificato, variegato e rugoso in cui ogni segno lungi da chiudersi in se stesso rimandava ad una realtà altra, inattingibile ed inesauribile, il libro si sofferma ad analizzare le modalità di conoscenza, di espressione e di racconto attraverso cui le città e i territori costruivano in forma allusiva e metaforica la propria immagine di sé, per presentarsi agli altri. E’ proprio dopo aver indagato queste forme di narrazione e di descrizione – in cui lo spazio non veniva mai visto nel suo involucro esteriore, ma vissuto dall’interno o inteso come schermo per rimandare a significati che trascendevano le qualità metriche e materiali dello spazio – che il testo focalizza l’attenzione sul nuovo modo di guardare la realtà introdotto dalla “svolta prospettica”. In particolare, proprio per coglierne i risvolti che interessano il territorio, è alla contemporanea riscoperta e affermazione dello strumento cartografico che esso dedica la sua attenzione. Anche in questo caso nel testo l’affermazione di questo strumento, che parte dagli stessi presupposti paradigmatici che condizionano la rappresentazione prospettica, non viene analizzata come semplice introduzione di un dispositivo tecnico di rappresentazione del territorio, ma piuttosto come espressione simbolica di un mutamento della logica globale di intendere e di concettualizzare lo spazio territoriale. Attraverso la rappresentazione cartografica infatti la terra – quella terra che per i Greci, prima di Anassimandro, aveva due facce indissolubili: Γη [Gê] superficie e Χθών [Chthón] profondità (Farinelli, 2003) – viene rappresentata su un piano estrapolando le fattezze della forma, misurabili attraverso un sistema di semplici coordinate metriche, dal loro stesso processo di formazione. Attraverso la rappresentazione cartografica per la prima volta i territori finiscono così, con l’applicazione della stessa logica, ad essere guardati non più come ambienti vitali, esito in continuo divenire di relazioni visibili e invisibili stabilite dagli uomini con i propri ambienti, ma come “cadaveri” senza vita e senza storia. Nel riportare la molteplicità dei tempi e delle storie su un unico piano la mappa elimina infatti le diverse temporalità, trasforma le storie in segni, separandoli per sempre dalle pratiche da cui erano stati prodotti, trasforma lo spazio qualitativo dei significati e della percezione, dell'oscuro, dell'eteroclito e dell'invisibile in una superficie in cui solo ciò che può essere visto può essere rappresentato: il resto sparisce per sempre. (De Certeau, 1990). Il territorio, in cui i segni non chiedono più di essere decifrati e interpretati, si trasforma in una superficie piatta ed omogenea in cui le differenze possono essere semplicemente descritte nella loro apparente evidenza (Foucault 1999). E’ in questo passaggio problematico che si delinea lo snodo fondamentale dell’intero lavoro. Come si argomenta nel testo infatti l’affermarsi dello strumento cartografico non solo modifica i sistemi di rappresentazione del territorio ma determina un cambiamento radicale del modo stesso di pensare il progetto ma anche di organizzare e di gestire il territorio. Come ha messo ben in rilievo Farinelli infatti l’idea che sia possibile rappresentare la complessità del globo su una tavola, riducendo la profondità del mondo alla superficie del visibile, spazializzando e bloccando su una superficie il tempo concreto del movimento e del divenire, non solo porta l’introduzione di nuove forme di conoscenza ma finisce per farci ritenere che sia possibile sostituire il territorio con la sua rappresentazione e scambiare questa rappresentazione con la realtà (Farinelli, 2003). E’ a partire da questo momento infatti che, una volta dissociate le forme disegnate sulla carta dall’atto creatore che le ha costituite, si comincia a pensare che le forme, possano in un certo senso precedere la vita che le produce e che la stessa città possa essere disegnata come una carta. Comincia a farsi avanti l’idea che, poiché non esiste il tempo inteso come produzione di novità, si possa pensare il futuro disegno della città tutto gia dato in una immagine interamente preformata e preesistente a se stessa. Come tale la città <> potrà essere prima disegnata <> (De Certeau, 1990, p. 223) e poi applicata sul territorio. Questo dominio assunto dalla carta sul mondo non solo condiziona il modo di pensare il progetto della città ma determina una svolta radicale negli stessi processi di ridisegno del territorio. Anche in questo caso la carta, diventata un vero e proprio simulacro del mondo, si trasforma nel modello di costruzione della realtà territoriale. Da una assemblaggio, accostamento di mondi locali autonomamente organizzati si passa all’idea che il territorio possa essere pensato come una sostanza estesa piatta e omogenea, in cui le diverse parti prive di spessore e di profondità, possono essere riorganizzate, senza contenere in se dei divenire, attraverso un disegno cartografico razionale calato sul territorio indifferente, attorno ad un punto centrale: la città. Dopo aver storicizzato e analizzato come questa visione del mondo abbia prodotto un nuovo “ordine” urbano e territoriale, il libro apre verso la contemporaneità, per analizzare quei profondi cambiamenti che, nel modificare in maniera sostanziale il nostro modo di usare lo spazio ed il tempo, stanno mettendo fortemente in discussione quelle categorie “prospettiche”, attraverso cui abbiamo pensato di filtrare e ordinare la realtà. Quello che emerge dall’analisi dei mutamenti in corso è il delinearsi di uno spazio sempre più eterogeneo e multiforme, difficilmente cartografabile e misurabile secondo i criteri con cui siamo stati abituati a classificare e ad ordinare il mondo. Uno spazio che alla nettezza delle figure dei confini certi, delle gerarchie e dalle regolarità, dell'unitarietà e della coerenza, riducibili ad un unico tempo e riportabili su un unico piano, contrappone infatti una territorialità aggrovigliata, palpitante e in continuo movimento. Uno spazio polifonico fatto di situazioni differenti in cui pezzi di territorio si muovono con andature e velocità diverse, intrecciandosi tra loro a diverse scale e a diversi livelli attraverso sistemi di relazioni molteplici, variabili e discontinue e in cui saltano e si accartocciano le vecchie dicotomie centro/margine, città/campagna, locale/globale, prossimità/distanza, dentro/fuori, pubblico/privato, reale/virtuale. E soprattutto uno spazio in cui l’invisibile e l’immateriale, che fagocitano l’informazione, la socialità e la produzione, tornano a fare capolino, rendendo sempre meno pertinenti i nostri vecchi metodi di comprensione e di interpretazione della realtà. Quell’occhio – principe dei sensi – che a partire dal quattrocento abbiamo abilitato come unico organo deputato alla conoscenza - non riesce infatti più a farci cogliere il senso dei mutamenti in atto: sappiamo che oggi non è più sufficiente guardare il mondo per capirlo. A partire dalla presa d’atto di queste profonde modificazioni e dal senso di spaesamento e di disorientamento che esse provocano in quell’occhio cieco e razionale che non riesce più a controllare la realtà e a pietrificarla con il suo sguardo, il testo invita a non rifugiarsi negli orizzonti del già noto; a non tentare di ricomporre attraverso realizzazioni simulacrali le membra del corpo morto di una città e di un territorio che non sono più. Indica che forse per rispondere allo smarrimento occorre: andare oltre il mondo delle apparenze per rientrare in contatto col mondo invisibile brulicante e imprevedibile della vita che lo sostiene; bucare i simulacri, “perforare la pelle delle cose per vedere come le cose si fanno cose e il mondo mondo” (Merleau Ponty 1989) ; rompere quella finestra che ci ha alienato dal mondo sostituendo la realtà con la sua rappresentazione per ritornare ad immergerci nella carne viva del territorio. Ripartire da questa condizione urbana dispersa che ci appartiene sapendo che il territorio non è una tavola bianca su cui imporre delle forme, ma uno spazio diversificato in continuo movimento, in cui sottotraccia spingono memorie, forze ed energie che non si vedono ma che lavorano continuamente per produrre cambiamento (Deleuze, 1995). Ed è con queste forze latenti che occorre fare i conti perché il progetto non si traduca nell’invenzione di forme di città possibili, distaccate dai contenuti organici della vita che li produce, ma si trasformi piuttosto in una sorta di dispositivo aperto capace di riattualizzare costantemente l’ordine delle cose immediato e vivente, di contenere in se dei divenire. Un dispositivo in grado di affondare radici, in un territorio denso e stratificato, a cui affidare il compito di rivelare “la potenza nascosta nel reale” (Deleuze, 2001) di intercettare le memorie e le energie deboli diffuse sul territorio, e di creare le condizioni perché le qualità insite in questa condizione urbana dispersa, introflessa e materiale, trovino modalità per venire alla luce, attualizzarsi ed esprimersi in forma non precostituita. Per far questo il libro suggerisce di ripartire proprio dalla ricchezza delle diverse situazioni territoriali che si muovono con andamenti temporali differenti non per omologare queste diversità su un unico piano o un unico tempo, ma piuttosto per riutilizzare queste diverse sonorità, continuando a produrle e non semplicemente contemplandole come belle immagini, per comporre, attraverso un lavoro di tessitura e di rammendo una nuova polifonica partitura in grado di esprimere “artisticamente” un’inedita cultura urbana.

Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica / Decandia, Lidia. - (2008), pp. 1-191.

Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica

DECANDIA, Lidia
2008-01-01

Abstract

Il libro intende mettere alla prova l’idea che per comprendere i mutamenti in atto nella città contemporanea occorra in primo luogo liberarsi da quella visione dello spazio e del tempo, che ha avuto origine con l’affermarsi del sistema di rappresentazione prospettica e che, a partire dal Rinascimento, ha potentemente condizionato il nostro modo di guardare e progettare la città e il territorio. Questa visione del mondo, espressione di un ordine di significati e di valori taciti, di di cui nonostante tutto siamo ancora profondamente invischiati ha fortemente modellato il nostro modo di guardare le cose da diventare talmente connaturata al nostro modo d’essere e di pensare, da essere esclusa da ogni forma di problematizzazione, di interrogazione e di riflessione. Lungi da ogni determinismo funzionale in questa visione si celano infatti in essa alcune idee fondanti, che affondano radici in uno spesso sostrato culturale che ha condizionato in maniera pesante il nostro stesso modo di guardare la città e il territorio e soprattutto di pensare la pianificazione e il progetto e che forse varrebbe la pena rimettere in discussione. Queste idee che hanno costruito dei potenti cannocchiali attraverso cui abbiamo filtrato la realtà, infatti, non solo non sono più sufficienti a farci cogliere il senso dei mutamenti in atto, ma rischiano di imbrigliare e di cristallizzare a tal punto la nostra visione da impedirci di capire che, al di là degli orizzonti conosciuti, forse qualcosa di nuovo sta nascendo. Qualcosa che agendo sottopelle della città contemporanea sta modificando radicalmente i nostri modi di esperire e di concettualizzare lo spazio e il tempo e che ci chiede di essere ascoltato ed interrogato. E’ proprio a partire da questi presupposti che il testo invita a liberarsi da questi orizzonti per allargare i confini della visione ed entrare in contatto con la realtà brulicante che ci appartiene al fine di ripensare le stesse modalità di guardare alla città e al territorio e di concepire il progetto. Il percorso Per “allargare i confini di questa visione” il lavoro, dopo aver individuato nell’invenzione del dispositivo prospettico, messo a punto a Firenze nel 400 da Brunelleschi, il momento chiave di questa importante svolta paradigmatica, mette in luce seguendo le orme già tracciate da studiosi importanti (Cassirer 1977; Panofsky, 2001, Feyerabend 2002; Florenskij 2003, Marin 2001, Merleau-Ponty 1989), quei presupposti infondati, ma fondanti che hanno reso possibile questa “forma simbolica”, di interpretazione e rappresentazione del mondo. Prima di vedere in quale mondo questi presupposti abbiano condizionato il nostro modo di guardare la città ed il territorio e di concepire il progetto, il lavoro, proprio per mostrare la non naturalità di questo sguardo distaccato e razionale che, come vedremo, ha ridotto lo spazio ad una sostanza estesa, impersonale e indifferenziata che viene prima dei corpi e ha trasformato la realtà vivente in un mondo pietrificato di oggetti, predestinati ai nostri artifici di captazione e di controllo, fa un salto indietro per rivolgersi al medioevo. Lo fa per scoprire e mettere in luce quali fossero le idee di spazio e di tempo e le conseguenti forme di organizzazione, di conoscenza, di descrizione e rappresentazione del territorio, esistenti prima che l’introduzione del sistema prospettico rieducasse forzatamente il nostro sguardo (Florenskij, 2003) e introducesse una maniera nuova di rapportarsi al mondo. Dopo aver descritto la molteplicità dei mondi locali che animavano lo spazio pulsante e vitale, accidentato, qualitativo, elastico e discontinuo del territorio medioevale – una realtà particolare interiormente organizzata, ovunque differenziata, come direbbe Florenskij che si opponeva allo spazio inerte e passivo a cui ci ha abituato la visione prospettica (Florenskij, 2003)– ed avere indagato i caratteri di questo spazio denso, stratificato, variegato e rugoso in cui ogni segno lungi da chiudersi in se stesso rimandava ad una realtà altra, inattingibile ed inesauribile, il libro si sofferma ad analizzare le modalità di conoscenza, di espressione e di racconto attraverso cui le città e i territori costruivano in forma allusiva e metaforica la propria immagine di sé, per presentarsi agli altri. E’ proprio dopo aver indagato queste forme di narrazione e di descrizione – in cui lo spazio non veniva mai visto nel suo involucro esteriore, ma vissuto dall’interno o inteso come schermo per rimandare a significati che trascendevano le qualità metriche e materiali dello spazio – che il testo focalizza l’attenzione sul nuovo modo di guardare la realtà introdotto dalla “svolta prospettica”. In particolare, proprio per coglierne i risvolti che interessano il territorio, è alla contemporanea riscoperta e affermazione dello strumento cartografico che esso dedica la sua attenzione. Anche in questo caso nel testo l’affermazione di questo strumento, che parte dagli stessi presupposti paradigmatici che condizionano la rappresentazione prospettica, non viene analizzata come semplice introduzione di un dispositivo tecnico di rappresentazione del territorio, ma piuttosto come espressione simbolica di un mutamento della logica globale di intendere e di concettualizzare lo spazio territoriale. Attraverso la rappresentazione cartografica infatti la terra – quella terra che per i Greci, prima di Anassimandro, aveva due facce indissolubili: Γη [Gê] superficie e Χθών [Chthón] profondità (Farinelli, 2003) – viene rappresentata su un piano estrapolando le fattezze della forma, misurabili attraverso un sistema di semplici coordinate metriche, dal loro stesso processo di formazione. Attraverso la rappresentazione cartografica per la prima volta i territori finiscono così, con l’applicazione della stessa logica, ad essere guardati non più come ambienti vitali, esito in continuo divenire di relazioni visibili e invisibili stabilite dagli uomini con i propri ambienti, ma come “cadaveri” senza vita e senza storia. Nel riportare la molteplicità dei tempi e delle storie su un unico piano la mappa elimina infatti le diverse temporalità, trasforma le storie in segni, separandoli per sempre dalle pratiche da cui erano stati prodotti, trasforma lo spazio qualitativo dei significati e della percezione, dell'oscuro, dell'eteroclito e dell'invisibile in una superficie in cui solo ciò che può essere visto può essere rappresentato: il resto sparisce per sempre. (De Certeau, 1990). Il territorio, in cui i segni non chiedono più di essere decifrati e interpretati, si trasforma in una superficie piatta ed omogenea in cui le differenze possono essere semplicemente descritte nella loro apparente evidenza (Foucault 1999). E’ in questo passaggio problematico che si delinea lo snodo fondamentale dell’intero lavoro. Come si argomenta nel testo infatti l’affermarsi dello strumento cartografico non solo modifica i sistemi di rappresentazione del territorio ma determina un cambiamento radicale del modo stesso di pensare il progetto ma anche di organizzare e di gestire il territorio. Come ha messo ben in rilievo Farinelli infatti l’idea che sia possibile rappresentare la complessità del globo su una tavola, riducendo la profondità del mondo alla superficie del visibile, spazializzando e bloccando su una superficie il tempo concreto del movimento e del divenire, non solo porta l’introduzione di nuove forme di conoscenza ma finisce per farci ritenere che sia possibile sostituire il territorio con la sua rappresentazione e scambiare questa rappresentazione con la realtà (Farinelli, 2003). E’ a partire da questo momento infatti che, una volta dissociate le forme disegnate sulla carta dall’atto creatore che le ha costituite, si comincia a pensare che le forme, possano in un certo senso precedere la vita che le produce e che la stessa città possa essere disegnata come una carta. Comincia a farsi avanti l’idea che, poiché non esiste il tempo inteso come produzione di novità, si possa pensare il futuro disegno della città tutto gia dato in una immagine interamente preformata e preesistente a se stessa. Come tale la città <> potrà essere prima disegnata <> (De Certeau, 1990, p. 223) e poi applicata sul territorio. Questo dominio assunto dalla carta sul mondo non solo condiziona il modo di pensare il progetto della città ma determina una svolta radicale negli stessi processi di ridisegno del territorio. Anche in questo caso la carta, diventata un vero e proprio simulacro del mondo, si trasforma nel modello di costruzione della realtà territoriale. Da una assemblaggio, accostamento di mondi locali autonomamente organizzati si passa all’idea che il territorio possa essere pensato come una sostanza estesa piatta e omogenea, in cui le diverse parti prive di spessore e di profondità, possono essere riorganizzate, senza contenere in se dei divenire, attraverso un disegno cartografico razionale calato sul territorio indifferente, attorno ad un punto centrale: la città. Dopo aver storicizzato e analizzato come questa visione del mondo abbia prodotto un nuovo “ordine” urbano e territoriale, il libro apre verso la contemporaneità, per analizzare quei profondi cambiamenti che, nel modificare in maniera sostanziale il nostro modo di usare lo spazio ed il tempo, stanno mettendo fortemente in discussione quelle categorie “prospettiche”, attraverso cui abbiamo pensato di filtrare e ordinare la realtà. Quello che emerge dall’analisi dei mutamenti in corso è il delinearsi di uno spazio sempre più eterogeneo e multiforme, difficilmente cartografabile e misurabile secondo i criteri con cui siamo stati abituati a classificare e ad ordinare il mondo. Uno spazio che alla nettezza delle figure dei confini certi, delle gerarchie e dalle regolarità, dell'unitarietà e della coerenza, riducibili ad un unico tempo e riportabili su un unico piano, contrappone infatti una territorialità aggrovigliata, palpitante e in continuo movimento. Uno spazio polifonico fatto di situazioni differenti in cui pezzi di territorio si muovono con andature e velocità diverse, intrecciandosi tra loro a diverse scale e a diversi livelli attraverso sistemi di relazioni molteplici, variabili e discontinue e in cui saltano e si accartocciano le vecchie dicotomie centro/margine, città/campagna, locale/globale, prossimità/distanza, dentro/fuori, pubblico/privato, reale/virtuale. E soprattutto uno spazio in cui l’invisibile e l’immateriale, che fagocitano l’informazione, la socialità e la produzione, tornano a fare capolino, rendendo sempre meno pertinenti i nostri vecchi metodi di comprensione e di interpretazione della realtà. Quell’occhio – principe dei sensi – che a partire dal quattrocento abbiamo abilitato come unico organo deputato alla conoscenza - non riesce infatti più a farci cogliere il senso dei mutamenti in atto: sappiamo che oggi non è più sufficiente guardare il mondo per capirlo. A partire dalla presa d’atto di queste profonde modificazioni e dal senso di spaesamento e di disorientamento che esse provocano in quell’occhio cieco e razionale che non riesce più a controllare la realtà e a pietrificarla con il suo sguardo, il testo invita a non rifugiarsi negli orizzonti del già noto; a non tentare di ricomporre attraverso realizzazioni simulacrali le membra del corpo morto di una città e di un territorio che non sono più. Indica che forse per rispondere allo smarrimento occorre: andare oltre il mondo delle apparenze per rientrare in contatto col mondo invisibile brulicante e imprevedibile della vita che lo sostiene; bucare i simulacri, “perforare la pelle delle cose per vedere come le cose si fanno cose e il mondo mondo” (Merleau Ponty 1989) ; rompere quella finestra che ci ha alienato dal mondo sostituendo la realtà con la sua rappresentazione per ritornare ad immergerci nella carne viva del territorio. Ripartire da questa condizione urbana dispersa che ci appartiene sapendo che il territorio non è una tavola bianca su cui imporre delle forme, ma uno spazio diversificato in continuo movimento, in cui sottotraccia spingono memorie, forze ed energie che non si vedono ma che lavorano continuamente per produrre cambiamento (Deleuze, 1995). Ed è con queste forze latenti che occorre fare i conti perché il progetto non si traduca nell’invenzione di forme di città possibili, distaccate dai contenuti organici della vita che li produce, ma si trasformi piuttosto in una sorta di dispositivo aperto capace di riattualizzare costantemente l’ordine delle cose immediato e vivente, di contenere in se dei divenire. Un dispositivo in grado di affondare radici, in un territorio denso e stratificato, a cui affidare il compito di rivelare “la potenza nascosta nel reale” (Deleuze, 2001) di intercettare le memorie e le energie deboli diffuse sul territorio, e di creare le condizioni perché le qualità insite in questa condizione urbana dispersa, introflessa e materiale, trovino modalità per venire alla luce, attualizzarsi ed esprimersi in forma non precostituita. Per far questo il libro suggerisce di ripartire proprio dalla ricchezza delle diverse situazioni territoriali che si muovono con andamenti temporali differenti non per omologare queste diversità su un unico piano o un unico tempo, ma piuttosto per riutilizzare queste diverse sonorità, continuando a produrle e non semplicemente contemplandole come belle immagini, per comporre, attraverso un lavoro di tessitura e di rammendo una nuova polifonica partitura in grado di esprimere “artisticamente” un’inedita cultura urbana.
2008
978-88-8353-642-7
Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica / Decandia, Lidia. - (2008), pp. 1-191.
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