Sebastiano Satta (Nuoro, 1867-1914) fu una figura di spicco nella Sardegna d’inizio secolo, affiliato, dentro il realismo e il classicismo democratico, al gruppo dei carducciani, quali Giuseppe Chiarini e Giovanni Marradi. A orientare il poeta nelle scelte professionali e artistiche concorsero una serie di circostanze biografiche, ma fu il crescere in quella temperie letteraria propria della seconda metà del XIX secolo e del primissimo Novecento, che più di tutto influì sulla rielaborazione della sua ars lirica. In Italia, come si sa, emersero a rappresentare istanze diverse le tre personalità poetiche di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, e accanto a loro crebbero i crepuscolari. La lezione di Carducci ebbe un grande peso nella sua maturazione letteraria, soprattutto da un punto di vista formale, dei linguaggi e della scelta dei modelli. Una riscoperta dei classici che trovò un’indubbia carica di vitalità proprio grazie al vate maremmano, il quale, sostenuto dal proposito di combattere la «facilità» e la «sciatteria» della lirica romantica, rivendicava alla poesia un alto magistero formale. E i modelli furono i greci e i latini, i trecentisti (Petrarca in testa), poi Chiabrera, Parini, Alfieri, Foscolo, Monti, Leopardi. Si puntò alla cura del verso, delle figure metriche, di quelle fonico-timbriche, delle strutture rimiche e si recuperarono generi metrici nati in epoca classica. Scrisse i Versi ribelli (1893), Nella terra dei nuraghes, (1893), Primo maggio (1896), i Canti barbaricini (1910) e i Canti del Salto e della Tanca (pubblicati postumi nel 1924) ed esercitò la professione forense, distinguendosi per le competenze e l'eloquenza elegante. La voce più autentica di Sebastiano Satta va ricercata nella trasfigurazione metaforica della Barbagia in quanto archetipo del sentimento lirico, luogo dell’anima, delle figure e dei miti ricorrenti; nella capacità di tradurre in arcana suggestione una nota paesistica attraversata da sconfinate solitudini e silenzi infiniti, ancestrali e atavici; nell’attitudine antropomorfizzante e simbolica oltre che nell’utilizzo di formule di discorso allusivo e indeterminato; nel rapsodo di leggende ed evocatore di certi aspetti della vita sarda, nel «Bustianu» più tormentato, intimista e raccolto, lontano dalla sterile mitologia della violenza, dell’odio e della vendetta.

«Sotto l’elce del Monte, col suo bastone, i suoi occhi buoni». Sebastiano Satta: il suo mondo, il suo tempo, Filologia della letteratura degli italiani/Edes, Sassari / Manca, Dino Gesuino. - 1:(2022), pp. 1-183.

«Sotto l’elce del Monte, col suo bastone, i suoi occhi buoni». Sebastiano Satta: il suo mondo, il suo tempo, Filologia della letteratura degli italiani/Edes, Sassari

Dino Manca
2022-01-01

Abstract

Sebastiano Satta (Nuoro, 1867-1914) fu una figura di spicco nella Sardegna d’inizio secolo, affiliato, dentro il realismo e il classicismo democratico, al gruppo dei carducciani, quali Giuseppe Chiarini e Giovanni Marradi. A orientare il poeta nelle scelte professionali e artistiche concorsero una serie di circostanze biografiche, ma fu il crescere in quella temperie letteraria propria della seconda metà del XIX secolo e del primissimo Novecento, che più di tutto influì sulla rielaborazione della sua ars lirica. In Italia, come si sa, emersero a rappresentare istanze diverse le tre personalità poetiche di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, e accanto a loro crebbero i crepuscolari. La lezione di Carducci ebbe un grande peso nella sua maturazione letteraria, soprattutto da un punto di vista formale, dei linguaggi e della scelta dei modelli. Una riscoperta dei classici che trovò un’indubbia carica di vitalità proprio grazie al vate maremmano, il quale, sostenuto dal proposito di combattere la «facilità» e la «sciatteria» della lirica romantica, rivendicava alla poesia un alto magistero formale. E i modelli furono i greci e i latini, i trecentisti (Petrarca in testa), poi Chiabrera, Parini, Alfieri, Foscolo, Monti, Leopardi. Si puntò alla cura del verso, delle figure metriche, di quelle fonico-timbriche, delle strutture rimiche e si recuperarono generi metrici nati in epoca classica. Scrisse i Versi ribelli (1893), Nella terra dei nuraghes, (1893), Primo maggio (1896), i Canti barbaricini (1910) e i Canti del Salto e della Tanca (pubblicati postumi nel 1924) ed esercitò la professione forense, distinguendosi per le competenze e l'eloquenza elegante. La voce più autentica di Sebastiano Satta va ricercata nella trasfigurazione metaforica della Barbagia in quanto archetipo del sentimento lirico, luogo dell’anima, delle figure e dei miti ricorrenti; nella capacità di tradurre in arcana suggestione una nota paesistica attraversata da sconfinate solitudini e silenzi infiniti, ancestrali e atavici; nell’attitudine antropomorfizzante e simbolica oltre che nell’utilizzo di formule di discorso allusivo e indeterminato; nel rapsodo di leggende ed evocatore di certi aspetti della vita sarda, nel «Bustianu» più tormentato, intimista e raccolto, lontano dalla sterile mitologia della violenza, dell’odio e della vendetta.
2022
978-88-6025-574-7
«Sotto l’elce del Monte, col suo bastone, i suoi occhi buoni». Sebastiano Satta: il suo mondo, il suo tempo, Filologia della letteratura degli italiani/Edes, Sassari / Manca, Dino Gesuino. - 1:(2022), pp. 1-183.
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