Lo scritto vuole mettere in luce il rapporto tra design e politica, a partire dalla considerazione che ogni oggetto-progetto è sempre coagulo di scelte, supporto di pratiche di vita, specchio dei modi – storici, sociali, culturali, e dunque imprescindibilmente politici – di concepire il “mondo”. Ciò è ancora più evidente quando le ragioni progettuali si fanno carico dell’esigenza di una trasformazione attiva; quando il design arrischia il proprio ruolo per affermare una visione sociale e politica diversa. Qui si mettono a confronto criticamente le implicazioni iniziali e gli echi plurimi – reazioni, risposte, riproposizioni a seguire – della notissima Proposta di autoprogettazione di Enzo Mari (1974) perché, in quella, il progetto era inteso come risposta al circolo chiuso dell’alleanza tra produzione e consumo: era il richiamo a un risveglio dalla passività del sempre più diffuso “non sapere” circa le cose del paesaggio quotidiano. Esempio di un design che vuole farsi azione, per la (ri)costruzione consapevole dell’abitare umano, la Proposta era per ciò stesso un gesto politico, inteso a perturbare le consuetudini di un paradigma socio-economico apparentemente obbligato, rimettendo in questione il rapporto che regola, in esso, l’esercizio dei saperi e dei poteri (saper fare/far sapere; poter fare/fare potere). La sua vocazione formativa ne faceva una “scuola” singolare che, attraverso l’esercizio critico ed etico del lavoro, avrebbe condotto alla riappropriazione di una conoscenza inscindibilmente pratica e teorica: alla realizzazione di oggetti e di soggetti insieme. Ora, in un’epoca che fa del design un vessillo (fallace) e del “progetto diffuso” una promessa (troppo facile) di uguaglianza, quell’esperienza torna attuale, e mostra i limiti di una democrazia che si pretende matura. La rimettiamo alla prova, confrontandola con le recenti, diffuse pratiche di autoproduzione, per capire quale distanza la separi da operazioni in apparenza tanto affini – cosa rimanga di equivoco, di incompreso, nelle tante riproposizioni cui, per oltre un quarantennio, ha dato spunto. A partire da qui, interroghiamo i modi e le possibilità di una (utopica?) “democrazia del progetto”: attenti alla voce non pacificata di Mari, sulle nuove formule di “autocostruzione da Brico” (Recession Design, 2008), e a quelle strategie che rinnovano il senso della sua Sedia-icona, a supporto di un’azione politica di integrazione e di riscatto sociale (Cucula, Berlino 2014).
L’inizio di una sedia. Sul progetto come costruzione di oggetti, e di soggetti per una vivibile democrazia / Sironi, Marco; Sironi, Roberta. - (2020), pp. 203-218.
L’inizio di una sedia. Sul progetto come costruzione di oggetti, e di soggetti per una vivibile democrazia.
Marco Sironi
;Roberta Sironi
2020-01-01
Abstract
Lo scritto vuole mettere in luce il rapporto tra design e politica, a partire dalla considerazione che ogni oggetto-progetto è sempre coagulo di scelte, supporto di pratiche di vita, specchio dei modi – storici, sociali, culturali, e dunque imprescindibilmente politici – di concepire il “mondo”. Ciò è ancora più evidente quando le ragioni progettuali si fanno carico dell’esigenza di una trasformazione attiva; quando il design arrischia il proprio ruolo per affermare una visione sociale e politica diversa. Qui si mettono a confronto criticamente le implicazioni iniziali e gli echi plurimi – reazioni, risposte, riproposizioni a seguire – della notissima Proposta di autoprogettazione di Enzo Mari (1974) perché, in quella, il progetto era inteso come risposta al circolo chiuso dell’alleanza tra produzione e consumo: era il richiamo a un risveglio dalla passività del sempre più diffuso “non sapere” circa le cose del paesaggio quotidiano. Esempio di un design che vuole farsi azione, per la (ri)costruzione consapevole dell’abitare umano, la Proposta era per ciò stesso un gesto politico, inteso a perturbare le consuetudini di un paradigma socio-economico apparentemente obbligato, rimettendo in questione il rapporto che regola, in esso, l’esercizio dei saperi e dei poteri (saper fare/far sapere; poter fare/fare potere). La sua vocazione formativa ne faceva una “scuola” singolare che, attraverso l’esercizio critico ed etico del lavoro, avrebbe condotto alla riappropriazione di una conoscenza inscindibilmente pratica e teorica: alla realizzazione di oggetti e di soggetti insieme. Ora, in un’epoca che fa del design un vessillo (fallace) e del “progetto diffuso” una promessa (troppo facile) di uguaglianza, quell’esperienza torna attuale, e mostra i limiti di una democrazia che si pretende matura. La rimettiamo alla prova, confrontandola con le recenti, diffuse pratiche di autoproduzione, per capire quale distanza la separi da operazioni in apparenza tanto affini – cosa rimanga di equivoco, di incompreso, nelle tante riproposizioni cui, per oltre un quarantennio, ha dato spunto. A partire da qui, interroghiamo i modi e le possibilità di una (utopica?) “democrazia del progetto”: attenti alla voce non pacificata di Mari, sulle nuove formule di “autocostruzione da Brico” (Recession Design, 2008), e a quelle strategie che rinnovano il senso della sua Sedia-icona, a supporto di un’azione politica di integrazione e di riscatto sociale (Cucula, Berlino 2014).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.