A partire dalla critica all’immagine di una città fortezza, che sempre più sembra proporsi come unico rimedio di fronte a quei flussi potenti di figure migranti che premono ai confini del nostro impero, scappando da terre di dolore e di pianto, il saggio intende utilizzare la sfida posta da questi mutamenti in atto per riflettere sul senso profondo che la parola città racchiude. Nel ribaltare profondamente l’idea che la città possa essere pensata come qualcosa di definito una volta per tutte, una fortezza in cui il diverso e l’estraneo debbano essere respinti e tenuti ai margini, si intende sostenere l’idea che essa debba essere immaginata come il più grande «dispositivo topografico e sociale capace di rendere efficaci al massimo l’incontro e lo scambio tra gli uomini» : una sorta di accampamento provvisorio ai margini del caos, in cui una collettività di diversi, lavora nel tempo, per creare il luogo stesso dell’essere insieme. Una sorta di vera e propria opera interattiva e relazionale in continuo divenire, in cui, in un continuo intrecciarsi, mischiarsi, stratificarsi, si producono spazi e beni comuni, non dati, ma continuamente conquistati attraverso un lavoro di incontro-scontro, tensione continua tra differenze. Come già osservava Mumford, ciò che caratterizza infatti la città, «in opposizione alla forma più rigida e chiusa in se stessa del villaggio eminentemente ostile ai forestieri» , è proprio la capacità che essa ha di attrarre i diversi, i non residenti e di fare di questa attrazione e di questo innato dinamismo l’essenza stessa del suo farsi. Sono infatti le molteplici differenze in quanto differenze a fare la città. E tuttavia ciò che la caratterizza è che nessuna di queste differenze può essere assolutizzata nel suo sé e nella sua diversità, ma può essere pensata solo in un’ottica trasformativa di continua relazione e di scambio con l’alterità, in nome di qualcosa di più grande che ci accomuna e ci tiene insieme. Per questo essa costituisce non un dato acquisito, ma semmai una posta in gioco da re-immaginare continuamente e creativamente. In questo senso produrre città significa «produrre e ricostruire la compartecipazione alla messa in comune dei modi di vita; elaborare e rielaborare i modi di connessione attiva delle differenze» . Questa idea verrà sostenuta attraverso un viaggio che intende partire da una meditazione sull’origine della città. Un’origine che affonda profonde radici nel luogo sacro e nella festa in cui, come osserva Mumford, il magnete si era già costituito prima dell’involucro. È in questo embrione di città che si produce quel senso profondo dell’essere insieme, in un’ottica di eccedenza, di intensa relazione e di scambio. È a partire da questo embrione che si sviluppano i diversi modi in cui le diverse società, che si sono succedute, hanno continuamente rielaborato e dato forma, in maniere diverse e creative, a questa possibile idea dell’essere in comune. Senza fare una storia, ma semplicemente ripercorrendo alcune fasi salienti di questo divenire città, non in forma lineare, ma attraverso un semplice accostamento di diverse esperienze, si intendere «incendiare il materiale esplosivo riposto in ciò che è stato» per illuminare il nostro presente. E mostrare come sia possibile accogliere i nuovi transiti e le nuove migrazioni non come qualcosa da demonizzare, ma piuttosto come qualcosa che ci costringe ad aprirci e a ripensarci.
Dalla città fortezza alla città come opera d'arte relazionale / Decandia, Lidia. - (2017), pp. 37-68.
Dalla città fortezza alla città come opera d'arte relazionale
DECANDIA, Lidia
2017-01-01
Abstract
A partire dalla critica all’immagine di una città fortezza, che sempre più sembra proporsi come unico rimedio di fronte a quei flussi potenti di figure migranti che premono ai confini del nostro impero, scappando da terre di dolore e di pianto, il saggio intende utilizzare la sfida posta da questi mutamenti in atto per riflettere sul senso profondo che la parola città racchiude. Nel ribaltare profondamente l’idea che la città possa essere pensata come qualcosa di definito una volta per tutte, una fortezza in cui il diverso e l’estraneo debbano essere respinti e tenuti ai margini, si intende sostenere l’idea che essa debba essere immaginata come il più grande «dispositivo topografico e sociale capace di rendere efficaci al massimo l’incontro e lo scambio tra gli uomini» : una sorta di accampamento provvisorio ai margini del caos, in cui una collettività di diversi, lavora nel tempo, per creare il luogo stesso dell’essere insieme. Una sorta di vera e propria opera interattiva e relazionale in continuo divenire, in cui, in un continuo intrecciarsi, mischiarsi, stratificarsi, si producono spazi e beni comuni, non dati, ma continuamente conquistati attraverso un lavoro di incontro-scontro, tensione continua tra differenze. Come già osservava Mumford, ciò che caratterizza infatti la città, «in opposizione alla forma più rigida e chiusa in se stessa del villaggio eminentemente ostile ai forestieri» , è proprio la capacità che essa ha di attrarre i diversi, i non residenti e di fare di questa attrazione e di questo innato dinamismo l’essenza stessa del suo farsi. Sono infatti le molteplici differenze in quanto differenze a fare la città. E tuttavia ciò che la caratterizza è che nessuna di queste differenze può essere assolutizzata nel suo sé e nella sua diversità, ma può essere pensata solo in un’ottica trasformativa di continua relazione e di scambio con l’alterità, in nome di qualcosa di più grande che ci accomuna e ci tiene insieme. Per questo essa costituisce non un dato acquisito, ma semmai una posta in gioco da re-immaginare continuamente e creativamente. In questo senso produrre città significa «produrre e ricostruire la compartecipazione alla messa in comune dei modi di vita; elaborare e rielaborare i modi di connessione attiva delle differenze» . Questa idea verrà sostenuta attraverso un viaggio che intende partire da una meditazione sull’origine della città. Un’origine che affonda profonde radici nel luogo sacro e nella festa in cui, come osserva Mumford, il magnete si era già costituito prima dell’involucro. È in questo embrione di città che si produce quel senso profondo dell’essere insieme, in un’ottica di eccedenza, di intensa relazione e di scambio. È a partire da questo embrione che si sviluppano i diversi modi in cui le diverse società, che si sono succedute, hanno continuamente rielaborato e dato forma, in maniere diverse e creative, a questa possibile idea dell’essere in comune. Senza fare una storia, ma semplicemente ripercorrendo alcune fasi salienti di questo divenire città, non in forma lineare, ma attraverso un semplice accostamento di diverse esperienze, si intendere «incendiare il materiale esplosivo riposto in ciò che è stato» per illuminare il nostro presente. E mostrare come sia possibile accogliere i nuovi transiti e le nuove migrazioni non come qualcosa da demonizzare, ma piuttosto come qualcosa che ci costringe ad aprirci e a ripensarci.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.